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Il Bene Comune






Una spiegazione sistematica del tema del bene comune suppone uno studio previo sullo sviluppo storico dell’argomento.
Dal panorama storico si può capire il profondo cambiamento che si è verificato a partire dall’età moderna: da una visione metafisica della società e del suo ordine gerarchico si è passato ad una visione positivista; dalla ricerca della società perfetta si passa alla ricerca della società possibile.
Siamo di fronte ad un cambiamento di paradigma. Da una parte nessuno dubita che la società abbia come fine un bene comune.
Ma, ci sono due maniere di intendere questo bene comune: la prima mette l’accento sulla comunità e sulla dimensione oggettiva del bene; la secondo accentua gli individui e la loro libertà. Nonostante questo spostamento paradigmatica nella filosofia politica, dopo le atrocità delle ultime guerre c’è stato un timido tentativo di recupero del concetto antico di un bene che facesse di criterio ad ogni progetto politico. Ma vediamo più in dettaglio lo sviluppo storico del tema.


Possiamo iniziare con Platone ed Aristotele, per i quali la società era qualcosa di naturale ed aveva come fine il promuovere una vita buona e giusta.
Entrambi i filosofi consideravano il compito di portare avanti questo fine come qualcosa di sublime e che, pertanto, la missione del politico aveva una dignità molto grande che meritava una consacrazione suprema ed una gran saggezza.
Diceva Aristotele:

"Infatti se costoro, che hanno questi rapporti, si riunissero, ma se ciascuno considerasse la casa come una città e se il loro aiuto reciproco si limitasse ai soli casi di aggressione esterna, quasi in virtù di un trattato militare, neppure in questo caso, a guardar le cose con una certa precisione, si potrebbe dire che si tratta di una città, dal momento che i loro rapporti sarebbero gli stessi, in condizioni di vicinanza e di lontananza locale. È pertanto evidente che la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita a alle famiglie e alle stirpi, e ha come fin una vita indipendente e perfetta. Questo scopo però non potrà essere raggiunto se i suoi membri non abiteranno lo stesso luogo e non contrarran-no reciproci matrimoni: perciò nella città sono sorti parentadi e fratrie e sacrifici e modi per trascorre la vita in comune. E tutto ciò è opera dell’amicizia in quanto essa è la preferenza per una vita in comune. Fine della città è dunque la buona vita e per raggiungere questo fine si impiegano tutti quei mezzi. La città è una comunità di stirpi e villaggi in una vita perfetta e indipendente, cioè, come diciamo, in una vita vissuta in modo bello e felice".


In questo testo può apprezzarsi la qualità dell'obbiettivo politico.
Gli uomini si riuniscono certamente per difendersi dalle aggressioni e per facilitare gli scambi commerciali, ma cerca-no anche qualcosa di più grande e completo.
Il bene comune, così inteso, non sopprime le differenze individuali ma, partendo da queste differenze, cerca la felicità piena per tutti e per ognuno (cfr. Politica, 1256a).
Il pensiero politico medievale seguì in gran parte questa linea della filosofia greca. Si basò anche sul concetto dell'universitas, secondo il quale il corpo sociale è considerato come un tutto, e gli uomini sono considerati come parti. Nella formazione di questa visione influirono sia la dottrina del diritto romano con la sua tendenza a privilegiare il bene comune al di sopra del bene particolare (utilitàs pubblica praefertur utilitati privatae), sia la dottrina paulina del «corpo mistico», secondo la quale o-gni persona è una parte e ha un compito preciso al servizio dell’unità (Cf I Cor 12,4ss; Ef. 1,23; Rom 12,5).
Ecco alcuni testi tipici del pensiero medievale:
II,II, 65,1: «lo stesso uomo è ordinato, come ad un fine, alla comunità, della quale è una par-te»;
I,II, 92, 1 ad 3: «la bontà di qualunque parte è considerata in proporzione al tutto... così, come l'uomo è parte della città, è impossibile che un uomo sia buono se non agisce di accordo al bene comune»;
I, II, 21, 3: «chi vive in società è, in qualche modo, parte e membro di tutta la società. Chi faccia qualcosa di buono o brutto contro un membro della società lede tutta la società come quando si ferisce la mano si lede tutto l'uomo»;
II,II, 4, 2: «una persona individuale in relazione alla comunità è co-me una parte in relazione ad un tutto, dove il bene di ognuno è subordinato al bene di tutti»;
Di Reg. princ. I, 9: «il bene della collettività è maggiore e più divino del bene di uno solo».


Questa visione – difficile per la sensibilità più individualista di oggi - non deve intendersi come se fosse l'annichilazione degli individui. Nel Medioevo, insieme a questo concetto di totalità, vi era sempre presente la convinzione che la persona umana non si riduceva alla dimensione politica temporale, ma aveva una finalità trascendente (cf. I,II, q. 21,a. 4 ad 3) e, d'altra parte, questa filosofia rifletteva una concezione metafisica della società e non una visione sociologia. Infatti era una dottrina che risaliva a quella della creazione e della partecipazione. In questa prospettiva metafisica Dio crea un universo con una moltitudine e una diversità di esseri ma con l’idea maestra di un bene comune.
Così, la subordinazione di una parte al bene maggiore del tutto, non è incompatibile col bene della parte perché il bene del tutto è anche un bene per la parte.
Qui abbiamo il fondamento della solidarietà intesa come l’integrazione delle differenze e delle disuguaglianze naturali; gli enti superiori sono chiamati ad agire su quelli inferiori come strumenti della causa efficiente prima, che è anche la causa finale. Cosi tutto si trova unito sotto l'attrazione di un unico bene finale. Al livello ontico questo movimento «verticale» crea armonia e solidarietà. Al livello mora-le, tocca all'uomo convertire questa solidarietà ontica in una virtù della sua libertà.
Dante diede espressione a questa visione quando disse: «Le cose tutte quante hanno ordine tra loro, e questo è forma che l'universo a Dio fa somigliante» (Divina Comedia, Il Paradiso, Canto I).


Come si integrano il fine ultimo e il fine specifico della politica?
Da una parte la società deve risolvere i problemi pratici della vita dell'uomo sulla terra ed una meta di questo genere è un fine «onesto», cioè non è un fine meramente strumentale che si cerca allo scopo di raggiungere un’altro fine. J. Maritain lo chiama un fine «infravalente» per sottolineare questo carattere di fine onesto e non soltanto strumentale .
D’altra parte, grazie al concetto che si aveva della trascendenza spirituale dell’uomo e del suo destino ultimo nella beatitudine, la scolastica poteva e doveva fare un passo di più nella spiegazione della finalità della politica: doveva integrare l’azione politica con il bene supremo, con il fine ultimo degli uomini. Così si è strutturata una dottrina in cui si riconosceva l’autonomia e la dignità della politica ma, allo stesso tempo, si affermava il suo carattere subordinato al potere spirituale.


Con l'arrivo della modernità la categoria del bene comune perse centralità e rilevanza etico-politica.
Molte furono le cause di questo cambiamento: le trasformazioni sociali diedero origine ad una maggiore mobilità sociale e così fecero cessare le condizioni che sostentavano il concetto tradizionale dell’ordine; le guerre religiose, con le sue divisioni profonde, crearono un ambiente di scetticismo rispetto alla possibilità stessa di trovare un bene che fosse comune, cioè veramente condiviso da tutti;
il processo di secolarizzazione sganciò la vita politica di ogni istanza etica e gli Stati sovrani non volevano avere un altro criterio di giudizio che non fosse la stessa logica dello Stato; la forte tendenza razionalista del ius naturalismo e la diffusione del modello conoscitivo delle scienze sperimentali resero difficile accettare un concetto metafisico come era quello del bene comune.


La combinazione di tutti questi elementi ebbe così un influsso determinante sulla filosofia politica: si smise di ricercare lo Stato “ottimo” con la sua concezione etica della vita politica e la sua preoccupazione per l'educazione dei cittadini, e si passò, invece, a parlare dello Stato «reale», «effettivo», «possibile».
Così Machiavelli, per esempio, dice di voler mettere in luce ciò che avviene realmente nella politica e non vuole delineare degli Stati ideali «che non si sono mai visti essere in vero». Etichetta come «immaginazione» (fantasia) i discorsi sullo Stato ideale e presenta la sua visione nuova come qualcosa di più vera, di più tecnica e, soprattutto, di più efficace:

"Resta ora a vedere quali debbano essere e modi e governi di uno principe con sudditi o con li amici.
E, perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non essere tenuto prosuntuoso, partendomi, massime nel disputare questa materia, da li ordini delli altri. Ma, sendo l'intento mio stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere; perché gli è tanto discosto da come si vive e come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa,per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovi-ni in fra tanti che non sono buoni.
Onde è necessario volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usare secondo la necessità".


Questo cambiamento etico va della mano con l'individualismo a-sociale di Hobbes ed ne è una conseguenza.
L'uomo è interpretato in chiave di un individualismo ontologico:
gli individui costituiscono la realtà prima e non sono sociali per natura ma per educazione ed utilità. Di qui la tesi che i principi fondamentali della costituzione dello Stato devono trattare degli individui e della proprietà. La società deve servire l'individuo, al suo benessere, ai suoi diritti. In questo contesto si continuava ad usare termini come "bene comune", ma il suo significato era cambiato radicalmente.
T. Hobbes, per esempio, usa i termini bonum publicum, bonum commune indicando valori come la pace, il benessere, la sicurezza, ma sempre sul fondo di un calcolo di vantaggi per gli individui.
Conviene collaborare socialmente.
È lo spirito del contratto.


In un primo momento il pensiero individualista liberale moderno partiva alla ricerca delle condizioni che facesse possibile il benessere individuale, in un secondo momento assunse un principio più sociale: il bene maggiore per il maggiore numero e per il maggiore tempo possibile.
Bentham fa eco di questa mentalità diffusa quando dice:

"L'interesse per il bene della comunità è una delle espressioni che ricorrono nel linguaggio morale. Se le vogliamo dare un significato, non può essere un altro che il seguente: La comunità è un corpo artificiale composto di persone individuali, i suoi membri.
Che cosa è allora l'interesse della comunità?
La somma degli interessi degli individui.
La somma degli interessi di questi membri. È vano parlare degli interessi della comunità senza comprendere gli interessi degli individui".
L'obiettivo da ottenere sarà allora "la massima felicità del maggiore numero possibile di persone".


Spinoza aveva detto anche «per bene si capisce quello che sappiamo in maniera sicura essere utile» (Ethica, IV, Defi-nizione 1).
Così il benessere individuale, sotto il profilo etico-politico, prende il posto del concetto antico del bene comune.


Nel secolo XX il concetto del bene comune ebbe una certa ripresa. I fallimenti sociali del liberalismo, le tragedie delle guerre mondiali spinsero gli uomini a cercare una stella polare per la politica che potesse conciliare i diritti degli individui con un progetto politico comune. La democrazia moderna sembra offrire una formula giusta ma, per mancanza di un concetto forte di verità, stenta a configurare un vero progetto politico e, spesso, si accontenta con una democrazia dei processi senza af-frontare del tutto il problema dei contenuti.


















1. Carattere specifico del fine collettivo


Il bene comune è qualcosa di differente del bene degli individui. Non è, pertanto, una mera somma dei beni individuali. La società è qualcosa reale, differente dalle persone che la compongono e pertanto avente un fine nuovo formalmente differente dai fini individuali.
Il bene comune della società e il bene singolare di una persona sono differenti non soltanto secondo la quantità ma anche formalmente.
Una cosa è l’essenza del bene comune ed un’altra l’essenza del bene del singolo, come sono differenti la parte e il tutto.
La società ha, pertanto, un fine spe-cifico.
Il fine della società è nominato un «bene».
Questo significa semplicemente che la società scaturisce dalla tendenza dell’uomo a perfezionarsi. Conseguentemente il fine è qualcosa di bene; fine e bene coincidono. Per il fatto che si tratta di un bene che si ottiene solo mediante la collaborazione, viene nominato bene comune.
Generalmente, quando si parla di bene comune si pensa al bene comune della società politica. Di questo si parlerà in seguito in questo capitolo. Ma bisogna dire che lo Stato (società politica) non esaurisce la società nella sua totalità.
Per questo, si potrebbe parlare anche di un bene comune della società, che include il bene comune attuato dallo Stato.








2. Definizione


La definizione classica è la seguente: «Per bene comune si deve intendere l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiun-gere la propria perfezione più pienamente e più speditamente.


Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l’ufficio dell’autorità» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1906; GS 26, 1; 74,1).
La concezione che abbiamo del bene comune dipende dalla nostra visione della società e, contemporaneamente, dà alla società un senso, un orientamento.
Il bene comune potrebbe apparire come la somma matematica degli interessi individuali, ma è qualcosa di più, perché include il concetto di ordine verso un fine. Un paragone con l’acqua può aiutare a comprendere.
Tante gocce possono formare una cascata e come tale avere una grande potenza. Ma, con la pura accumulazione non produrrebbero mai quello che fa una cascata cadendo su una turbina, cioè indirizzata ad una finalità.
In una società formata esiste qualcosa di nuovo rispetto alla mera somma dei membri. Certamente, questo bene comune può essere più forte o meno forte e questo dipende dal senso sociale. Quando questo è debole e ognuno si preoccupa in forma preponderante dei suoi fini particolari, allora la società assomiglierà di più ad una conglomerazione che non una vera unione.


In che consiste il bene comune?

Il bene comune comprende una dimensione di ordine e una dimensione dinamica.
Da una parte, la società ha bisogno di cercare la pace, la stabilità, la sicurezza, la giustizia. Le persone vogliono sentirsi sicure, protette dalla legge e protette contro le aggressioni.
Questo è l’ordine del diritto, una delle grandi conquiste della civiltà e il primo bene che qualsiasi società deve procurarsi. Quando non c’è questa dimensione, allora la società non può esistere.
Nell’aspetto dinamico il bene comune significa la creazione di mezzi ed opportunità per lo sviluppo .


Qual è la dimensione morale del bene comune?

L’esigenza etica che si deduce dal bene comune si chiama solidarietà, l’interiorizzazione del bene comune.
La solidarietà, a sua volta, consiste nell’atteggiamento costante della mente e della volontà che riconosce l’interdipendenza che esiste tra gli uomini e agisce di conseguenza. Questa coscienza può domandare persino sacrifici eroici.
Si sottolineano le parole atteggiamento costante perché non basta un sentimento sporadico di compassione o di patriottismo; ci vuole un atteggiamento durevole.
La concezione del bene comune qui esposta si trova spesso in rotta di collisione con una mentalità che privilegia gli interessi dell’individuo.
Sembrano due concezioni incompatibili.
Ma questo non corrisponde alla realtà dove, di fatto, la giusta com-binazione tra interessi personali e interessi comuni produce ottimi risultati.
Il bene comune è come una bussola che orienta le decisioni d’azione in una maniera più efficiente ed ottimale, perché si sforza di combinare il bene proprio e il bene di tutti.
Gli elementi di ambedue le parti interagiscono come un sistema cibernetico.
Infine dobbiamo dedicare una parola all’ideale sociale e la sua realizzazione.
Il bene comune certamente risponde ad un ideale della società verso il quale la collettività tende sempre. Questo ideale non è mai raggiunto pienamente e, per questo, c’è sempre spazio per realizzare un bene comune migliore, superando la meta raggiunta in qualsiasi momento determinato della storia.
J. Maritain ha sintetizzato quest’idea con il termine «ideale storico concreto» nel suo libro Umanesimo integrale e ci spiega che «ciò che chiamiamo un ideale storico concreto non è un essere di ragione, ma una essenza ideale realizzabile (più o meno difficilmente, più o meno imperfettamente...) di perfezione sociale e politica e presentante solo le linee di forza e gli abbozzi ulteriormente determinabili d’una realtà futura».








3. Caratteristiche del bene comune


a) Il bene comune che si cerca di creare sta al servizio delle persone e del suo bene integrale.

La società e lo Stato sono al servizio del bene integrale dell’uomo e non devono andare mai contro la dignità o di diritti della persona umana. Anche se è doveroso rispettare la giusta autonomia della politica è ovvio che deve favorire e mai essere un ostacolo per il raggiungimento del suo fine trascendente.
Esiste il pericolo che la società (lo Stato) si preoccupi soltanto dei fattori materiali, economici o di sicurezza, dimenticando le dimensioni spirituali e morali.


b) Il bene comune ha come norma la natura umana.

In questo senso i parametri per giudicare la validità di un ordine politico non sono totalmente relativi e dipendenti della cultura e dell’epoca storica.
Certamente ci sono dei condizionamenti culturali e storici, ma ci sono anche elementi universali e permanenti: la natura dell’uomo e il suo perfezionamento. Questa considerazione è importante quando si cerca di creare un diritto internazionale.
Se tutto fosse relativo alle culture, allora non si potrebbe obiettare contro certi elementi culturali evidentemente contrari alla dignità dell’uomo e della donna. Diceva la Pacem in terris, n. 37:

"Vanno certamente considerati come elementi del bene co-mune le caratteristiche etniche che contraddistinguono i vari gruppi umani. Però quei valori e quelle caratteristiche non esauriscono il contenuto del bene comune.
Il quale nei suoi aspetti essenziali e più profondi non può essere concepito in termini dottrinali e meno ancora determinato nei suoi contenuti storici, che avendo riguardo all’uomo, es-sendo esso un oggetto essenzialmente correlativo alla natura umana".


c) Il bene comune deve essere un bene sussidiario.

Cerca di creare possibilità e opportunità per tutti, senza cadere nell’eccesso di paralizzare la responsabilità e la creatività degli individui.
Alcuni Stati assistenzialisti hanno commesso tale errore.


d) Il bene comune deve essere veramente comune.

La società ed i beni che genera deve arrivare a tutti con giustizia e imparzialità, semplicemente perché tutti gli uomini sono uguali.
Questa caratteristica suppone un senso delicato di giustizia. Da una parte, suppone di garantire le stesse opportunità per tutti evitando situazioni aperte o sottili di discriminazioni ingiuste.
D’altra parte, nella distribuzione della ricchezza creata è necessario prendere in considerazione le differenze essenziali che giustificano una ripartizione differenziata e proporzionale. I criteri di questa distribuzione sono, secondo le circostante, il merito (risultati), lo sforzo, l’onore, la necessità.
Questa è una giustizia difficile da stabilire, ma va ricercata con passione.


e) Un bene comune mondiale.

Oggi si parla sempre di più della globalizzazione. Non si tratta già delle semplici relazioni internazionali tra paesi, ma la configurazione di una unione globale, conseguentemente con un bene comune globale. Questo non è possibile senza qualche forma di autorità globale. Alcuni pensano ad un governo globale. Altri, sensibili al pericolo di una sola autorità mondiale, credono che basterà una buona coordinazione tra tutte gli organi-smi internazionali, ad esempio, l’Organizzazione mondiale del lavoro, le Nazioni Unite, ecc. Ad ogni modo, è importante affermare che il bene comune mondiale dovrà attenersi agli stessi criteri del bene comune nazionale: servizio all’uomo, integralità, sussidiarietà, ecc.








4. Il bene comune ed il bene personale


Il bene comune della società e il bene privato delle persone sono mutuamente complementari.
Quando un individuo collabora con il bene comune, e questo bene pubblico è conforme alla sua natura, allora l’azione serve in realtà il bene della persona, anche se questo bene non fosse sentito come tale dalla sensibilità del momento;
pensiamo quando il bene comune ci chiede un sacrificio.


Nonostante questa verità teorica, la cosa non è così facile nella pratica dove non mancano conflitti e dubbi sul giusto rapporto tra pubblico e privato.
Fin dove deve arrivare l’autorità dello Stato?
Pensiamo ad ambiti come la legge penale, la pena di morte, il diritto all’obiezione di coscienza, le libertà religiose, i diritti delle minoranze, gli scioperi, la pubblicità, il divorzio, le sette, la censura, il regionalismo, la legalizzazione della droga e dell’alcol, la privacy, ecc.
Da una parte, abbiamo la persona, ogni persona che è fine in se stessa ma, d’altra parte, abbiamo la realtà del bene sociale. Il bene personale è prezioso ma non esiste in un vuoto: il bene proprio non può essere senza il bene comune.
Come abbiamo detto, il bene comune è formalmente differente dei beni individuali ed è, in qualche modo, superiore a quelli.


Vediamo adesso i tre possibili sbocchi del problema.


a) Tentazione individualista

Di fronte a questi dilemmi, la tentazione di una risposta individualista è forte.
In economia si ribadisce la scelta libera degli individui come l’elemento fondamentale. Una «mano invisibile» armonizzerà tutte queste scelte verso il bene sociale. Nell’ambito morale e culturale si difende tenacemente l’autonomia della scelta personale; ad esempio, il caso del aborto è stato emblematico in questi anni come adesso lo è la libertà di ricerca sulla vita.
Nel settore politico si favorisce la riduzione della presenza dello Stato, la difesa dei diritti individuali essen-do molto sensibili ad alcune discriminazioni come, per esempio, per ragioni di scelta sessuale.
L’individualismo ad oltranza non è però una soluzione in primo luogo perché non è una difesa autentica dei valori della persona bensì l’affermazione dell’egoismo umano.


b) Tentazione collettivista

Altri scelgono l’opzione collettivista, affermando il prima-to assoluto della società.
Questa è stata la filosofia dei regimi totalitari e delle dittature. Esiste anche la tentazione di quest’opzione perché, in un certo senso, semplifica le tensioni.
C’è gente che voterà per un governo “forte” perché vuole ordine, sicurezza.
La democrazia è una forma politica difficile e non è mai compiuta, ma vive in un equilibrio dinamico, grazie ad una gestione intelligente, politicamente matura e giusta dei conflitti sociali, specialmente nelle loro origini.


c) Soluzione organica e prudente

Superate le tentazioni estreme resta il compito della rispo-sta organica che parte dalla persona umana che è contempora-neamente individuo e sociale.
Come abbiamo detto questi valori sono complementari e c’è una solidarietà dinamica tra loro. Nonostante il fatto che oggi non possiamo condividere la staticità sociale del Medioevo la concezione metafisica che soggiaceva alla teoria politica può ancora rendere un servizio di illuminazione al tema che ci occupa.
L’essere «parte» non era visto a danno del valore trascendente della persona: significava compiere il ruolo proprio, in sintonia con un finalismo più totale.
Ovviamente, questa visione suppone la credenza nel Creatore e nel disegno di Dio per il mondo.
Per i credenti oggi resta una strada da percorre nello sforzo di capire quale deve essere il rapporto tra individuo e società.
Di fronte alla tendenza secola-rizzante della vita politica tocca al credente scoprire il «valore aggiunto» che può dare la fede nella risoluzione dei dilemmi umani. Ne segue che Dio non va eliminato dalle discussioni politiche e il monito di Paolo VI, citando a H. De Lubac, va sem-pre tenuto presente:

«È un umanesimo plenario che occorre promuovere. Che vuol dire ciò, se non lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini? Un umanesimo chiuso, insensibile ai valori dello spirito e a Dio che ne è la fonte, potrebbe apparentemente avere maggiori possibilità di trionfare. Senza dubbio l’uomo può organizzare la terra senza Dio, ma “senza Dio egli non può alla fine che organizzarla contro l’uomo. L’umanesimo esclusivo è un umanesimo inumano”. Non v’è dunque umanesimo vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento d’una vocazione, che offre l’idea vera della vita umana. Lungi dall’essere la norma ultima dei valori, l’uomo non realizza se stesso che trascendendosi» .


Concludiamo questo capitolo ricordando che non c’è una risposta unica, una volta per tutte e che la prudenza dovrà gioca-re un ruolo importante sempre.

In primo luogo, la prudenza politica – sia la legislativa, sia l’esecutiva – che è, forse, la più difficile e meritatamente chiamata dagli antichi un’opera quasi divina.



fonte:
Percorsi di Etica Sociale - Che cosa è la giustizia? Come realizzarla qui ed ora? (capitolo terzo - Il bene comune).





Si ringrazia,
Padre Michael Ryan, L.C. - Direttore dell'Istituto Fidelis - Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, Roma.













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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo.
Non abbiate paura!
Cristo sa "cosa è dentro l’uomo". Solo lui lo sa!
Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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