Il cristiano nel mondo secondo John Henry Newman
e la Lettera a Diogneto
Cos’è un cristiano?
Ti sei mai posto questa domanda?
Oppure ti è mai capitato di confrontarti con qualcuno su questa domanda?
Cos’è che distingue i cristiani dal resto dell’umanità?
Si può individuare un cristiano in una folla?
Cosa fa sì che un cristiano sia veramente un cristiano?
Basta avere un certo credo?
È forse una filosofia, un modo di vivere?
Perché alcuni si sono convertiti alla fede attratti dall’esempio di cristiani,
anche senza avere una propria consapevolezza?
Edith Stein, per esempio, fu profondamente toccata dalla reazione della sua amica cristiana che accettò con fede e rassegnazione la perdita di suo marito, morto in guerra. Fu anche impressionata dalla vista delle signore che, ritornando dal mercato con le buste cariche di acquisti, si fermavano in Chiesa per una visita al Santissimo Sacramento. Chi sono questi cristiani? Nel III secolo dopo Cristo, un certo Diogneto pose questa stessa domanda a un cristiano chiamato Mathete e ricevette una risposta. Pare che la medesima domanda abbia interessato anche un predicatore anglicano del XIX secolo.
Egli parlava spesso dell’identità del cristiano nella Chiesa dell’Università di St. Mary’s a Oxford e trovò una risposta.
Al di là del fatto di avere lo stesso nome, hanno qualcosa in comune i cristiani della Chiesa primitiva, quelli del XIX secolo e quelli della metà del secolo XX?
Fu uguale il loro tenore di vita? Abbiamo noi qualcosa in comune con loro?
La nostra vita appare come la loro? Possono essi dirci cosa significa essere un cristiano nel mondo -essi che hanno vissuto senza computer, DVD, aeroplani e senza ogni sorta di aggeggi elettronici e tecnologici?
La chiamata universale alla santità
Uno dei più significativi insegnamenti del Concilio Vaticano Secondo riguardala chiamata universale alla santità.
Nella Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium, troviamo un intero capitolo dedicato alla chiamata alla santità.
Vi leggiamo: “Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla Gerarchia sia che da essa siano diretti, sono chiamati alla santità” (LG 39), e ancora, “È chiaro a tutti, che ogni fedele di qualunque stato o grado è chiamato alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità” (LG 40).
Più oltre, “Tutti i fedeli sono dunque invitati e tenuti a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato” (LG 42).
Ciò non è un nuovo insegnamento, scoperto dai Padri del Concilio.
Lo troviamo negli scritti e negli insegnamenti del santo raffigurato sull’altare, nella cappella privata del Cardinale Newman nell’Oratorio di Birmingham, San Francesco di Sales; lo troviamo negli scritti dei Padri della Chiesa; lo troviamo nelle parole dello stesso Gesù. Eppure, l’insegnamento del Concilio è notevole, ed è stato messo in evidenza spesso negli anni successivi, perché era - in qualche modo - dimenticato e, ahimè (come direbbe Newman) oggi sembra sia stato lasciato di nuovo ai margini della strada, come diluito dalle onde di un nuovo attivismo esteriore e superficiale.
Eppure è questa la chiamata che fornisce almeno la base per una risposta alla domanda che abbiamo formulata, cioè, è vero che tutti i cristiani di tutti i tempi hanno qualcosa in comune al di fuori del nome?
Se, come insegna il Concilio Vaticano Secondo, tutti i cristiani sono chiamati alla santità, non potrebbe essere questo ciò che noi abbiamo in comune con i cristiani di tutti i secoli? Come si potrebbe definire questa santità?
Con in mente la chiamata universale alla santità, diamo uno sguardo più attento alla risposta che Diogneto ricevette alla domanda circa l’identità del cristiano, e alla predicazione di John Henry Newman nella Chiesa di St. Mary’s in risposta alla stessa domanda.
Il cristiano: nascosto nel mondo
Nella Lettera a Diogneto si legge che i cristiani “non si differenziano dal resto degli uomini né per territorio, né per lingua, né per consuetudini di vita.
Infatti non abitano città particolari, né usano di un qualche strano linguaggio, né conducono uno speciale genere di vita. Abitano in città sia greche che barbare, come capita, e pur seguendo nel vestito, nel vitto e nel resto della vita le usanze del luogo, si propongono una forma di vita meravigliosa” [1].
John Henry Newman - in un sermone dal titolo Cristo nascosto al mondo - afferma che Cristo stesso potrebbe vivere vicino a noi, senza che noi lo sappiamo. Egli, infatti, trascorse trent’anni in una vita nascosta, “senza fare nulla di grande, così, solo per vivere. Non predicò, non chiamò discepoli, non promosse nulla in ordine alla missione per la quale era venuto nel mondo”.
Di conseguenza, gli altri “lo hanno trattato come uno di loro”[2]. Simile è la sorte dei cristiani di oggi. Non appaiono diversi dagli altri uomini con cui essi lavorano e vivono. Ma, “pur simili a costoro esteriormente..., sono molto diversi nel loro intimo; non vogliono apparire agli occhi del mondo, si comportano con grande semplicità, con un’apparenza molto ordinaria, ma in realtà si impegnano seriamente per la propria santificazione. Fanno ogni sforzo per cambiare se stessi, diventare simili a Dio, imporsi una disciplina, rinunciare al mondo; ma lo fanno in segreto” (Gesù, p. 206).
Newman sottolinea ancora che questi cristiani, alla vista dell’uomo comune, sono uguali a quelli che più o meno sono attaccati al mondo perché “la vera religiosità è una vita nascosta nel cuore; sebbene essa non possa esistere senza le azioni, queste sono per lo più azioni segrete: segrete opere di carità, segrete preghiere, segrete rinunce, segrete lotte, segrete vittorie” (Gesù, p. 206).
Il cristiano: straniero in terra straniera
Quando Diogneto lesse la lettera più oltre, gli fu detto che i cristiani “abitano ciascuno la loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutte le attività di buoni cittadini e accettano tutti gli oneri come ospiti di passaggio.
Ogni terra straniera è patria per loro, mentre ogni patria è per essi terra straniera. Come tutti gli altri si sposano e hanno figli, ma non espongono i loro bambini. Hanno in comune la mensa, ma non il talamo.
Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Trascorrono la loro vita sulla terra, ma la loro cittadinanza è quella del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma, con il loro modo di vivere, sono superiori alle leggi” (Liturgia, p. 757s.).
Nel sermone L’Apostolo, Newman considera il cristiano dell’età apostolica ed enumera tre caratteristiche dei primi cristiani. La prima, che ci interessa in primo luogo, “è di essere privo di legami e obbiettivi mondani, di vivere in questo mondo, ma non per questo mondo… Sappiamo cosa vuol dire essere cittadini di questo mondo: vuol dire avere interessi, diritti, privilegi, doveri, legami con persone in qualche città e stato particolari, dipendere da essi, essere obbligati a difenderli, esserne parte. Tutto questo il cristiano lo è relativamente al cielo. Il cielo è la sua città,non la terra. O, per lo meno, così era per quanto concerne i cristiani secondo la Scrittura” [3].
Siamo in qualche modo sorpresi nel vedere la somiglianza della descrizione nella Lettera a Diogneto con quella offerta da Newman secondo le Scritture. Questa particolare caratteristica del cristiano è tracciata diverse volte da Newman nei suoi sermoni. Non la vide come caratteristica propria solo dei primi cristiani, ma come caratteristica necessaria per i cristiani di tutti i tempi. Disse: “E’ compito specifico del cristiano opporsi al mondo” (Sermoni, p. 545).
Newman era convinto che i cristiani sono forestieri in questo mondo. “Sappiamo bene come ci colpiscono gli stranieri”, disse nel sermone Effetti morali della comunione con Dio, “spesso per la nostra mentalità, essi sono strani e poco gradevoli nel loro modo di fare. Perché accade questo? Esclusivamente perché vengono da un paese diverso dal nostro. Ogni paese ha i suoi propri modi di essere, - uno può non essere meglio dell’altro ma, per istinto naturale, noi abbiamo i nostri modi e non comprendiamo quelli degli altri...
Alla stessa stregua, il mondo, in generale... non può neanche distinguere o capire il cristiano”[4].
Ma cosa significa questo nella vita quotidiana?
In due sermoni profondamente illuminanti - uno intitolato Una persona vigilante pronunciato da anglicano, l’altro intitolato Il cristiano: L’uomo che attende il Cristo essenzialmente lo stesso sermone riscritto e pronunciato da cattolico - Newman mostrò la ragione per cui i cristiani sono stranieri in una terra straniera. Essi devono vegliare per Cristo, per la sua venuta, cioè, “essere distaccati da ciò che è presente e vivere in quello che non è visibile; vivere nel pensiero di Cristo che è venuto una volta, e che verrà nuovamente; desiderando la sua seconda venuta per il ricordo affezionato e grato della sua incarnazione nel grembo di Maria” [5].
A questo punto qualcuno forse è tentato di obbiettare: ma noi viviamo nel mondo e non possiamo pretendere di farne a meno. Abbiamo la responsabilità della famiglia. Il denaro non si trova sugli alberi. È molto bello essere occupati nel vegliare per Cristo per un monaco o per una suora, ma noi dobbiamo vivere nel presente. Non si può pensare solo a ciò che non si vede.
Newman non fu ignaro di questa obiezione. Egli rispose spiegando che vegliare per Cristo significa essere vivi e zelanti nel cercarlo e onorarlo in tutte le situazioni e in tutto ciò che accade.
La persona che abitualmente veglia per Cristo non sarà ansiosa di scoprire che Egli verrà presto.
Vegliare con Cristo significa rinnovare la vita di Cristo nella nostra vita, comprese la sua passione e morte. “Chiunque vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mc 8,24).
“I veri cristiani”, disse Newman, “sono vigilanti, e i cristiani incoerenti non lo sono” (Come guardare, p. 33).
Lo spirito del mondo, avverte Newman, ha un grande influsso sull’anima. Questo spirito mondano è quello che “ama le mode, le onorificenze, i piaceri, le comodità di questa vita, - che ingenera soddisfazione nell’essere prospero nelle condizioni finanziarie, che ama lo sfarzo e le vanità, esigente nelle cose come il cibo, le vesti, la casa, l’arredamento e gli affari domestici, fa la corte a gente importante e aspira ad avere una posizione nella società”(PS [6], p. 101).
Il linguaggio di Newman ci pare piuttosto forte, ma non possiamo fraintendere ciò a cui egli ci sprona: se siamo troppo preoccupati per il denaro, la bellezza, la moda, il cibo, i vestiti, ecc., abbiamo uno spirito mondano.
Gli stessi avvertimenti ci sono già stati dati da Cristo stesso nella parabola delle vergini stolte; nel racconto dell’uomo ricco che ebbe un raccolto abbondante e fece i piani per una vita di piaceri, a cui venne domandata l’anima quella stessa notte; nella parabola del seminatore in cui parte del seme fu soffocata dalle preoccupazioni di questo mondo; e nella parabola del servo che mangiò e bevve e maltrattò gli altri servi quando il padrone era assente.
In un altro sermone Newman fece ai fedeli alcune domande concrete per far capire bene la sua posizione: Siamo forse tentati di trascurare il servizio di Dio per qualche scopo temporale? Questo è del mondo, e da non accettare. Siamo messi in ridicolo perla nostra condotta coscienziosa? Ancora una volta questo è un giudizio del mondo, a cui bisogna resistere. Siamo tentati di dare troppo tempo ai nostri svaghi, di stare oziosi quando dovremmo lavorare; leggere o parlare quando dovremmo occuparci del nostro dovere temporale; sperare cose impossibili, sognare di essere in uno stato di vita diverso dal nostro; troppo ansiosi dell’opinione degli altri; attenti a ricevere credito per la propria laboriosità, onestà e prudenza? Tutte queste cose sono tentazioni del mondo. Siamo insoddisfatti della nostra sorte, oppure le siamo troppo legati, piagnucolosi e abbattuti quando Dio richiama il bene che ci ha dato?
Questi uomini sono di mentalità mondana (PS VII, p. 39-40).
E altrove Newman ci avverte: “Nulla sembra corrompere talmente i nostri cuori e allontanarci da Dio, che quanto circondarci di comodità... -siano esse cose animate o inanimate, che ci dominano... Quanti esempi ci sono nelle Scritture di uomini sciocchi e fastosi” (PS VII, p. 98). Basti pensare al ricco epulone che finì nei tormenti mentre Lazzaro giaceva nel seno di Abramo, a Demas che lasciò San Paolo perché amava questo mondo, e a Salomone, il re sapiente che nella vecchiaia amò molte donne straniere e adorò i loro dei.
Non solo dobbiamo avere fede in Lui, ma dobbiamo servirlo; non solo dobbiamo sperare, ma dobbiamo attenderlo; non solo dobbiamo amarlo, ma desiderare la sua presenza; non dobbiamo solo obbedirgli, ma stare attenti; aspettare con zelo la nostra ricompensa, che è Gesù stesso. Non solo dobbiamo fare di Lui l’oggetto della nostra fede, della nostra speranza e del nostro amore, ma dobbiamo considerare nostro dovere non credere nel mondo, non sperare nel mondo, non amare il mondo. Dobbiamo decidere di non dipendere dalle opinioni del mondo. La nostra saggezza sta nell’essere distaccati da tutte le cose di quaggiù [7].
“In questo allora,” sostiene Newman in un altro sermone, “consiste il nostro totale dovere, primo nel contemplare Dio onnipotente, come in cielo così nei nostri cuori e nell’anima; poi, pur contemplandolo, nel lavorare in Lui e per Lui, nelle opere di ogni giorno, nell’ammirare con fede la sua gloria con e senza di noi, e nel riconoscerlo con la nostra obbedienza” (PS III, p. 269).
“Vegliate, dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora” (Mt 25, 13).
“Sembra”, disse Newman, “che la volontà di Cristo sia che i suoi discepoli non debbano avere alcuna meta o fine, occupazione o affare che appartenga meramente a questo mondo” (PS II, p. 82). Newman non afferma che i discepoli del Signore non debbano avere occupazioni o affari, ma che questi non siano soltanto del mondo.
Ma - noi obbiettiamo - comprare una macchina o lavorare in una ditta o pulire la casa o studiare per un diploma non sono forse affari solo di questo mondo? Newman risponde di no, sottolineando che occorre compiere tutti i nostri doveri nell’obbedienza alla volontà e alla luce di Dio. Precisa: “Ogni atto di obbedienza è un avvicinarsi - un avvicinarsi a Lui che non è lontano, anche se lo sembra, ma molto vicino al visibile schermo delle cose che lo nascondono da noi. Egli è dietro questa struttura; terra e cielo non sono che un velo frapposto tra Lui e noi; il giorno verrà quando Egli strapperà quel velo e si mostrerà a noi.
E allora, secondo il modo con cui lo abbiamo aspettato, ci ricompenserà” (PS IV, p. 332).
Il distacco del cristiano dal mondo è la conseguenza diretta della sua conoscenza che Cristo verrà- alla sua morte o alla fine del tempo.
L’idea di Newman è che questa conoscenza deve avere conseguenze pratiche, non per paura ma per amore. Nella Grammatica dell’assenso egli rileva che i primi cristiani erano ispirati non solo da una certa dottrina o da un ente pubblico, era soprattutto il ricordo di Cristo”che dava vita alla promessa di quell’eternità, che senza di Lui, in ogni anima, non sarebbe nulla più che un fardello” [8].
Il ricordo di Cristo... Chi di noi non sente l’effetto del ricordo di una persona amata?
Se siamo sposati e lontano dalla moglie o dal marito, il semplice pensiero del coniuge ce lo porta vicino, ci rallegra e sì, ci sprona nei nostri doveri e ce li allevia. Così dovrebbe essere per noi, quando pensiamo a Cristo. Il solo pensiero dovrebbe rallegrarci, ispirarci, spronarci. “Poiché l’amore di Cristo ci spinge” -dice San Paolo nella seconda lettera ai Corinzi (5,14).
Questo pensiero di Cristo non è necessario che sia esplicito, dovrebbe essere piuttosto una semplice consapevolezza del fatto che Cristo è con noi, un’abitudine a essere con Cristo, a vivere con Lui, ad amarlo. È questo pensiero di Cristo che tiene il cristiano staccato dal mondo.
La santa Chiesa ha mantenuto lo sguardo al cielo fin dall’ascensione di nostro Signore.
Ogni anno essa rivive i misteri della sua vita e morte.
“Nel corso dei secoli”, dice Newman, “essa modifica la sua disciplina, aggiunge qualcosa alle sue devozioni, e tutto con il solo scopo di fissare il suo sguardo e quello dei suoi figli più pienamente sulla persona del suo invisibile Signore”[9]. Se viviamo con la Chiesa, siamo vigilanti, aspettiamo il Cristo e non viviamo con il mondo. Siamo residenti in una terra straniera.
Il cristiano: perseguitato
Dopo un momento di sosta per riflettere un po’ sulla posizione dei cristiani nei confronti del mondo, Diogneto continuò a leggere:
In una parola i cristiani sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo.
L’anima si trova in tutte le membra del corpo e anche i cristiani sono sparsi nelle città del mondo.
L’anima abita nel corpo, ma non proviene dal corpo.
Anche i cristiani abitano in questo mondo, ma non sono del mondo.
L’anima invisibile è racchiusa in un corpo visibile, anche i cristiani si vedono abitare nel mondo, ma il loro vero culto a Dio rimane invisibile.
La carne, pur non avendo ricevuto ingiustizia alcuna, si accanisce con odio e muove guerra all’anima, perché questa le impedisce di godere dei piaceri sensuali; così anche il mondo odia i cristiani pur non avendo ricevuto ingiuria alcuna, solo perché questi si oppongono al male... L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo... L’anima, maltrattata nei cibi e nelle bevande, diventa migliore.
Così anche i cristiani, esposti ai supplizi, crescono di numero ogni giorno. Dio li ha messi in un posto così nobile, che non è loro lecito abbandonare (Liturgia, p. 758s).
La persecuzione, individuale o collettiva, è stata la sorte della Chiesa fin dal principio, tanto che sembra essere un marchio della cristianità ed il motivo di questo si trova in quello di cui abbiamo già parlato: il cristiano non è di questo mondo. “Il mio regno”, disse Gesù a Pilato, “non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato” (Gv 18,36).
Chiedi a qualsiasi cristiano, allievo di una scuola pubblica oggi, cosa è un cristiano, se lo vede vestire diversamente, parlare diversamente, non andare alle feste, rimanere casto, essere contro l’aborto e l’eutanasia, non seguire l’ultima moda? E qualora fosse riuscito durante la scuola secondaria a non compromettere il suo credo, possiamo congratularci con lui ma sappiamo, che la vera battaglia deve ancora cominciare. Pur tuttavia per ogni battaglia sono necessarie delle esercitazioni.
Questa battaglia, tante volte nascosta, è una battaglia dentro di noi e contro il nostro ego. “La battaglia è il vero contrassegno del cristiano,”
Newman disse: “E’ un soldato di Cristo: di bassa o di elevata condizione, è questo e non è altro.
Se avete domato interamente il peccato mortale... , non vi resta che aggredire i peccati veniali in voi; non c’è scampo, altro non rimane da fare, posto che siate soldati di Gesù Cristo” [10]. Solo alla fine della sua vita l’Apostolo Paolo poté dire: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2 Tm 4,7). Certamente è questa lotta interiore che ci fortifica e ci rende adatti alla lotta esteriore e a perseverare di fronte alle avversità.
La persecuzione dei cristiani arriva in molti e svariati modi, ma la risposta dei fedeli dev’essere sempre e dovunque la stessa: una rassegnazione ben disposta, contenta della nostra causa nelle mani di Dio e una sopportazione paziente delle prove che Egli ci dà. A questo non è necessario aggiungere altro.
È evidente che noi nella Chiesa siamo in uno stato alquanto privilegiato rispetto a ciò che crediamo. La folla non lo comprende... Non abbiamo timore, dunque, di essere pochi tra molti nella nostra fede. Non temiamo l’opposizione, il sospetto, il rimprovero o il sarcasmo. Iddio ci vede; e i suoi angeli ci custodiscono.
Essi sanno che siamo nel giusto e testimoniano per noi; e “ancora un poco, infatti, un poco appena, e colui che deve venire verrà e non tarderà. Il mio giusto vivrà mediante la fede” (Eb 10, 37-38) (PS III, p. 270).
I cristiani: quelli che sorreggono il mondo
Nella lettera indirizzata a lui, Diogneto lesse la frase già citata sopra: “L’anima è rinchiusa nel corpo, ma essa a sua volta sorregge il corpo. Anche i cristiani sono trattenuti nel mondo come in una prigione, ma sono essi che sorreggono il mondo”.
È mai possibile questo?
Tutto il mondo sorretto da un gruppo di gente, da un gruppo non raramente odiato e perseguitato?
Nella Grammatica dell’assenso, Newman precisa che la rivelazione comincia là dove la religione naturale viene meno. La religione naturale è basata sul senso del peccato; riconosce la malattia, ma non offre nessun rimedio.
Per questa ragione ha bisogno di un completamento e il solo completamento possibile è il cristianesimo, perché esso è il solo rimedio per il peccato. “Quel rimedio, sia alla colpa che all’impotenza morale”, scrisse Newman, “si trova nella dottrina centrale della rivelazione, la mediazione di Cristo...
Questo è il modo in cui ha saputo fin dall’inizio occupare il mondo e guadagnare credito in ogni classe della società umana che i suoi predicatori raggiungevano; questa è la ragione per cui il potere romano e la moltitudine di religioni che esso comprendeva non potevano resistergli; questo è il segreto della prolungata energia e dei suoi martiri che mai cedettero; questo è il modo in cui oggi è così misteriosamente potente, malgrado i nuovi e minacciosi avversari che ne cospargono la via. Ha dalla sua quel dono di tamponare e di sanare l’unica profonda ferita della natura umana... e per questo deve durare finché dura la natura umana”
(Scritti filosofici, p. 1669).
Nel romanzo Callista, Newman ha dimostrato cosa intende dire quando parla della “profonda ferita della natura umana” nel dialogo tra Callista e il prete Cecilio (che in realtà è Cipriano, Vescovo di Cartagine):
“Vuol dire - disse Callista con calma - che dopo questa vita finirò nel Tartaro per l’eternità?
- Tu sei felice? - chiese il sacerdote a sua volta.
Callista indugiò, abbassò gli occhi e poi disse con voce chiara e profonda:
- No.
Seguì un breve silenzio.
- Forse da anni ti senti infelice - riprese il sacerdote.
- Non è così? Vedo che l’ammetti. Hai un grosso peso sul cuore e non sai cosa sia. Ed è probabile che questa infelicità diventi sempre più pesante in futuro.
Ti sentirai sempre più infelice, finché vivrai. Quando sarai vecchia, non riuscirai più a sopportare l’esistenza. - Quello che lei ha detto, è vero - gridò Callista, come se soffrisse fisicamente.
- Me l’ha detto per insultarmi e deridermi?
- Dio me ne guardi! - esclamò Cecilio. - Ma lasciami parlare. Ascolta, figliola.
Abbi il coraggio di guardare in faccia la realtà. Ogni giorno che passa senti sudi te un peso in più. Questa è la legge della nostra vita terrena... Non puoi rifiutare di accettare ciò che non è un’opinione ma un fatto.
Voglio dire che questo peso di cui parlo non è solo un dogma della nostra fede, ma un fatto naturale innegabile. E i nostri sentimenti non potranno mai cambiarlo; anche se tu vivessi duecento anni, constateresti che è sempre più vero. Alla fine dei duecento anni, la tua infelicità sarebbe tale da non far rallegrare neppure i tuoi peggiori nemici... .
- Ma tu non vivrai tanto, dovrai morire. Forse mi risponderai che così cesserai d’esistere. So però che non la pensi così. Tu pensi, come me e come una moltitudine d’altri individui, che continuerai a vivere, che continuerai ad esistere. Sarai ancora lo stesso essere, ma senza le consolazioni che ora puoi ottenere. Sarai sola, chiusa in te stessa... E allora, se non avrai più niente di ciò che hai ora, e rimarrai con l’unica compagnia di te stessa, la tua infelicità sarà senza dubbio maggiore e non minore di ora.
Pensa per un momento che ti piaccia parlare e che tu non possa farlo; che ti piacciano i poeti della tua gente e non riesca a ricordarli; che ti piaccia la musica e che tu non abbia strumenti per suonarla; che ti piaccia la scienza e che tu non abbia niente da imparare; che desideri l’affetto e non ci sia nessuno da amare; allora, non sarebbe più grande l’infelicità?
Facciamo un altro passo; supponi di trovarti tra persone che non ami; che non ti piacciano le loro occupazioni e non capisca i loro scopi; supponiamo che ci sia, come dicono i cristiani, un Dio onnipotente, che non ti piaccia, che non voglia pensare a lui, che non ti interessi chi è e cosa ha fatto; e supponiamo che tu scopra che c’è solo Lui, da te non amato e a cui vorresti sfuggire; non ti sentiresti ancora più infelice?
E se questo durasse per sempre, non si tratterebbe di una pena indicibile per sempre?...
- Se, d’altra parte - continuò Cecilio, senza badare alla sua interruzione - tutti i tuoi pensieri seguono una stessa direzione; se tutti i tuoi bisogni, desideri, aspirazioni sono rivolti a un solo oggetto, e suppongono, per il fatto stesso della loro esistenza, che esista anche tale oggetto; e se niente in questo mondo può appagarli, e se una dottrina ti dice che vengono da quell’oggetto che hai presentito e di cui ti parlano, e così sono una risposta alla tua brama; e se quelli che hanno accettato quella risposta dicono che è soddisfacente; allora, Callista, non ti sentirai obbligata almeno a guardare quella soluzione, a esaminare ciò che ti hanno detto, e a chiedere il suo aiuto, se può darti la forza di credere in Lui?
- E’ ciò che mi diceva una mia vecchia schiava - commentò improvvisamente Callista -... Qual è il vostro rimedio, il vostro oggetto, il vostro amore, o maestro cristiano?...
Cecilio tacque un momento, come se non trovasse la risposta. Alla fine disse:
- Ogni individuo si trova nella tua situazione. Purtroppo, non amiamo l’unico amore che dura per sempre.
Noi amiamo le realtà che passano, che finiscono. Dato che le cose stanno così, colui che dovremmo amare ha deciso di riportarci a sé. Per questo, è venuto in questo mondo, sotto forma di uomo. E sotto questa forma umana, ci apre le braccia e cerca di farci tornare a Lui, nostro Creatore.
Questa è la nostra fede, questo è il nostro amore, Callista...
- È il solo che ama le anime - disse con foga Cecilio - ed ama ciascuno di noi come se fosse l’unica persona da amare. È morto per ciascuno di noi come se fossimo l’unica persona per cui morire. È morto su una croce obbrobriosa. “Amor meus crucifixus est”. L’amore ispirato da Lui dura per sempre, perché è l’amore dell’immutabile. È un amore che appaga perfettamente, perché è inesauribile. Più ci avviciniamo a Lui, più entra in noi; più abita in noi, più intimamente lo possediamo... Ecco, perché è così facile per noi morire per la nostra fede, tanto da stupire il mondo... Perché non ti avvicini a Lui? Perché non lasci le creature per il creatore? [11].
Sì, la separazione dal creatore, che mette il creato al posto di Dio, questa è “la profonda ferita della natura umana”, quella ferita di cui il mondo si gloria ma che minaccia la caduta del mondo.
Eppure il mondo, simile a un bambino piagnucoloso che allontana dalla sua bocca la medicina necessaria per la sua guarigione e mena colpi alla sua mamma che gliela porge, non solo rifiuta il rimedio per la sua ferita mortale, ma arriva persino a perseguitare il datore del rimedio.
Sì, sono i cristiani che sorreggono il mondo, con la loro comunione in Cristo, la loro santità, il loro vivere nel mondo senza appartenere al mondo, col dare tutto per amore di Cristo, disposti a perdere tutto pur di restare con Lui, in una parola, seguendo colui dal quale hanno ereditato il proprio nome.
Sì, malgrado le forze contrarie, i cristiani - avendo Cristo nel cuore - sorreggono il mondo, non a guisa di una fascia che stringe insieme una ferita, ma come un nutrimento e una cura attenta che aiuta la ferita a guarire dal di dentro.
Conclusione
Riprendiamo ora la domanda che ci siamo posti all’inizio: hanno i cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi qualcosa in comune, nome a parte?
Teniamo presente ciò che abbiamo considerato come la base per la risposta a questa domanda, cioè la chiamata universale alla santità.
Abbiamo visto che questa santità non consiste in fenomeni straordinari o in atti eroici.
Sia la Lettera a Diogneto che i sermoni di Newman ci hanno mostrato la maniera con cui questa santità viene vissuta: nel distacco dal mondo che è il risultato dell’amore e dell’attaccamento al Cristo e, tramite questo, nella partecipazione alla salvezza di Cristo che sorregge il mondo.
Perché, come abbiamo visto, la profonda ferita del mondo è la separazione da Dio e la santità è la comunione con Dio. La chiamata alla santità è, dunque, una chiamata per aiutare a guarire la ferita del mondo, e questo è ciò che i cristiani di tutti i tempie di tutti i luoghi hanno in comune.
I cristiani sono coscienti di tutto questo?
Siamo noi consapevoli di ciò a cui siamo chiamati?
“Temo in effetti”, afferma Newman, “che molti uomini, benché professino e rispettino la religione, hanno ancora nozioni di basso profilo del loro stato di cristiani. Essere cristiani è uno dei più grandi e meravigliosi doni nel mondo” (PS III, p. 298).
Sr. Kathleen Marie Dietz FSO
NOTE
[1] La Lettera a Diogneto, Liturgia delle ore (= Liturgia), vol. II, p. 757.
[2] NEWMAN J. H., Gesù. Pagine scelte (= Gesù), a cura di G. VELOCCI, Paoline, Milano 1992, p. 204.
[3] NEWMAN J. H., Sermoni su temi di attualità. Sermoni all’Università di Oxford
(= Sermoni), a cura di L. CHITARIN, Edizione Studio Domenicano, Bologna 2004, p. 259-260.
[4] NEWMAN J. H., Sermoni anglicani (= Sermoni anglicani), a cura di COLOMBI G., Jaca Book - Morcelliana, Milano Brescia, 1981, p. 264.
[5] NEWMAN J. H., Come guardare il mondo con gli occhi di Dio (= Come guardare), a cura di MAGNABOSCO L., Paoline, Milano, 1996, p. 35.
[6] NEWMAN J. H., Parochial and Plain Sermons, 8 vols. (= PS I - VIII), Christian Classics, Westminster, Md., 1966-1968. I sermoni citati in questo modo non sono ancora pubblicati in italiano. La traduzione è nostra.
[7] NEWMAN J. H., I sermoni per le domeniche e le festività, a cura di TOLHURST J., Paoline, Torino 1997, p. 107.
[8] NEWMAN J. H., Saggio in sostegno di una Grammatica dell’assenso, in: Scritti filosofici (= Scritti filosofici), a cura di MARCHETTO M., Bompiani, Milano 2005, p. 1631.
[9] NEWMAN J. H., Sermons Preached on Various Occasions, Westminster 1968, p. 40. La traduzione è nostra.
[10] NEWMAN J. H., Sermoni cattolici, Jaca Book -Morcelliana, Milano - Brescia 1984, p. 85.
[11] NEWMAN J. H., Callista, Paoline, Roma 1983, p. 126-129.
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APPROFONDIMENTI:
L’eredità di John H. Newman negli insegnamenti di Giovanni Paolo II