Papa Wojtyla cittadino della Garbatella, Roma
ROMANI si nasce ma nella Chiesa a un certo punto lo si diventa.
E Giovanni Paolo II, il servo di Dio che il primo maggio sarà proclamato Beato, lo è diventato più di tutti.
Ha sempre avuto Roma nel cuore, e ha sempre saputo che la città lo ricambiava della stessa moneta: ne era felice.
Lo sarà ancor più, dal cielo, quando, in suo nome, nella domenica dedicata alla Divina Misericordia la festa che egli stesso ha istituito piazza San Pietro ritornerà a scoprirsi troppo piccola per contenere la gioia, l’esultanza, l’affetto per il Papa “venuto da un Paese lontano” e salito fin lassù, alla gloria degli altari.
Giovanni Paolo II beatificato dal suo immediato successore, Benedetto XVI, suo grande collaboratore e amico in vita: anche in questo singolarissimo intreccio di santità c’è molto che riguarda direttamente Roma.
Il primo maggio sarà anche, in molti modi, una grande festa del pontificato in sé.
Infatti, negli anni dell’immediato dopoguerra, come studente a Roma, mi recavo quasi ogni domenica proprio alla Garbatella, per aiutare nel servizio pastorale.
Alcuni momenti di quel periodo sono ancora vivi nella mia memoria, benché mi sembri che, nel corso di più di trent’anni, molte cose qui siano enormemente cambiate"
Giovanni Paolo II, Omelia pronunciata il 3 dicembre 1978
Senza Roma non c’è Papa, tenendo conto che dalla tomba di Pietro è nata la successione apostolica, ma il primo pontefice non italiano, dopo 4 secoli di storia, ha fatto in modo da rendere ancora più evidente e direi vitale questo vincolo tra la città eterna e il suo vescovo.
Cominciò subito, fin dai primi attimi del suo pontificato, Giovanni Paolo a rendere esplicito e teologicamente significativo questo legame.
Quando si affacciò alla Loggia di San Pietro (ed io che a sentire quel nome così inusuale per molti romani fui preso, mentre ero in piazza insieme a migliaia di persone, da una emozione ancora oggi difficile da descrivere) non si presentò come il “nuovo Papa”, ma come il “nuovo vescovo di Roma”.
Nella sua visione, come nella sua vita, è stato vero che tutte le strade di Dio portano, infine, a Roma: un orizzonte che si è delineato presto sul suo luminoso cammino.
Fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, nel ’46, quando, giovane prete, fu inviato dal vescovo a completare i suoi studi nella capitale.
Era iscritto all’Angelicum, l’università dei Domenicani, all’inizio di via Nazionale e alloggiava al Collegio Belga. A piedi, ogni mattina, approfondiva la conoscenza di Roma, tra strade che cominciavano a diventare familiari, come le persone che incontrava; e le une e le altre portavano ancora i segni di una città ferita che faceva fatica a superare gli stenti e le privazioni del conflitto.
Spesso, però, i tratti di strada si facevano più lunghi, perché quel giovane prete era attratto come tutti dalle bellezze della città.
E così piazza Navona, Fontana di Trevi, e tutta l’area del centro storico, diventarono mete abituali, come pure dall’altra parte della città Trastevere e, in particolare la Garbatella.
Qui, nella parrocchia di San Francesco Saverio, prestò, per qualche tempo, il primo servizio pastorale romano, aiutando soprattutto nelle confessioni.
Non mi meravigliai quando, da Papa, volle iniziare le visite alle parrocchie romane proprio dalla Garbatella. Era il 3 dicembre del 1978. Non erano trascorsi che 48 giorni dall’elezione. Visitare a una a una tutte le parrocchie di Roma è stato un suo grande obiettivo.
A San Francesco Saverio seguirono altre 300 parrocchie, e quando fu impossibilitato a muoversi, ha chiamato parroci e fedeli in Vaticano aprendo le porte dell’Aula Paolo VI, che diventava, così, per qualche domenica una sorta di parrocchia comune.
Ma di Roma il Papa, oltre alle parrocchie, si può dire che abbia attraversato ogni strada e varcato ogni soglia: i luoghi di sofferenza il “Gemelli” diventò, in un suo famoso saluto, il “Vaticano III” il “Santo Spirito”, le carceri Regina Coeli, Rebibbia (dove incontrò il suo attentatore Alì Agca) ma anche Casal del Marmo.
I centri dove si esercita la solidarietà verso gli ultimi della fila: le mense per i poveri sparse nella città; i luoghi di lavoro, come lo Smistamento delle ferrovie al Salario; le piazze, per l’omaggio all’Immacolata l’otto dicembre nell’incanto di piazza di Spagna.
Non ha fatto mancare la sua presenza nei palazzi delle istituzioni da Montecitorio al Campidoglio ma ancora più volentieri ha bussato alla porta degli umili: per molti anni si è recato in visita al presepe che i netturbini preparano in via delle Fornaci.
Quando non è stato più possibile ha voluto che essi venissero in Vaticano.
E nella Roma ha compiuto un pellegrinaggio quasi sotto casa, in termini chilometrici, ma certamente tra i più lunghi e significativi dell’intero pontificato: mettendo piede nella Sinagoga di Roma ha attraversato simbolicamente duemila anni di storia.
Da quel momento è iniziata una storia nuova nei rapporti tra cristiani ed ebrei.
Ed è iniziata a Roma, in quella che non è mai stata una “città di sfondo” alla sua intensissima attività pastorale anche come Primate della chiesa italiana.
Da Roma è partito l’approfondimento verso la conoscenza della realtà nazionale.
Anche il lungo pellegrinaggio nella penisola, che l’ha portato a visitare tutte le regioni, è partito da un’esplorazione sempre più attenta e coinvolgente della sua città di adozione.
Amava a fondo Roma ma proprio per questo non aveva gli occhi chiusi sulla città; e quando si trovava di fronte come ogni inizio d’anno gli amministratori locali non esitava a denunciare ritardi e carenze.
In una occasione ricordo parlò di “angoli da terzo mondo”.
Non erano giudizi che nascevano “a tavolino”: le visite alle parrocchie erano, in tutti i sensi, visite alla città, preparate come tali, poiché prima di recarsi sul posto il Papa voleva essere informato sui problemi.
Prima con il cardinale Poletti, poi con il cardinale Ruini, i parroci venivano invitati a pranzo.
E si trattava di veri pranzi di lavoro. Ho letto, recentemente, una dichiarazione del cardinale Ruini che illustra in maniera esemplare il clima che si veniva a creare:
«Non posso dimenticare, afferma il cardinale l’insistenza, direi quasi l’ansia con cui mi domandava: Quando andiamo a visitare le parrocchie?
Un’ansia che cresceva via via che peggioravano le sue condizioni di salute.
Ancora nel gennaio 2005 aveva in mente di ricevere, appena possibile, quelle che ancora lo attendevano: un desiderio che ha portato con sé entrando nella casa del Padre».
Non erano diverse le visite alle parrocchie, dai pellegrinaggi che lo portavano in ogni parte del mondo: voleva conoscere a fondo uomini e problemi per ricapitolare tutto a quell’ansia di evangelizzazione che non conosce confini.
Nella Chiesa di Roma il suo magistero portò all’indizione del Sinodo, per l’attuazione del Concilio Vaticano II, e della Missione cittadina.
Si può parlare di un vero e proprio magistero per la città. Un magistero esercitato senza risparmio, ma anche con grande inventiva e fantasia, come in quell’incontro con i parroci di Roma, nel febbraio del 2004 nella Sala Clementina, quando, mettendo da parte i fogli del discorso, passò al romanesco: «Dàmose da fa, Volemose bene, semo romani», concludendo quell’improvvisata a suo modo.
Ma il varco più solenne che Giovanni Paolo II ha attraversato a Roma è stato certamente quello della Porta Santa del Grande Giubileo dell’Anno Duemila.
È stato il Papa che ha introdotto la chiesa universale nel Terzo millennio dell’era cristiana.
Ci ha accompagnati per il primo tratto, facendo leva e forza sul magistero della sofferenza: ha speso le sue ultime energie per trovare la parola di un saluto dalla finestra di piazza San Pietro, affacciata su una Roma commossa e trepidante per la salute del Papa.
L’ininterrotto pellegrinaggio dell’Anno Santo è stata un po’ l’icona di tutto il pontificato: le folle che cercano il Papa perché sanno di essere a loro volta cercate.
E come dimenticare allora, proprio pensando al particolarissimo rapporto tra il Papa e Roma, quell’oceanico abbraccio dei giovani a Tor Vergata: oltre due milioni, una generazione che si schierava al suo fianco per costruire un futuro tutto nuovo.
Questo futuro, oggi più che mai parte da Roma: dalla stessa finestra dove l’immediato successore di Giovanni Paolo II, il Santo Padre Benedetto XVI, continua con illuminata sapienza la sua opera.
Il primo maggio si ritroveranno ancora una volta insieme, come sul sagrato del saluto finale.
E questa volta il filo conduttore sarà quello della santità.
Fonte:
IL MESSAGGERO
Si ringrazia.
Sua Eccellenza Mons. Stanislaw Dziwisz,
Aarcivescovo di Cracovia e Cardinale presbitero di Santa Maria del Popolo, Roma
APPROFONDIMENTI:
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Il Papa che Liberò l’Europa dal comunismo
Omelia di Giovanni Paolo II - Domenica 3 dicembre 1978
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