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Padre nostro, che sei nei cieli









TEMA 40.

Padre nostro, che sei nei cieli



Con il Padre nostro Gesù Cristo ci insegna a rivolgerci a Dio come Padre.

È la preghiera filiale per eccellenza.











1. Gesù ci insegna a rivolgerci a Dio come Padre





Con il Padre nostro Gesù ci insegna a rivolgerci a Dio come Padre: «Pregare il Padre è entrare nel suo mistero, quale Egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato: “L’espressione Dio-Padre non era stata mai rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, si sentì rispondere un altro nome. A noi questo nome è stato rivelato nel Figlio: questo nome, infatti, implica il nuovo nome di Padre” (Tertulliano, De oratione , 3)» (Catechismo , 2779).

Nell’insegnare il Padre nostro , Gesù svela ai suoi discepoli che anch’essi sono stati resi partecipi della sua condizione di Figlio: «Mediante la rivelazione di questa preghiera i discepoli scoprirono una loro speciale partecipazione alla figliolanza divina, della quale l’apostolo Giovanni dirà nel prologo del suo Vangelo: “A quanti… l’hanno accolto (e cioè: a quanti hanno accolto il Verbo che si è fatto carne), Gesù ha dato il potere di diventare figli di Dio” (Gv 1, 12).
A ragione perciò, secondo il suo stesso insegnamento, essi pregano: Padre nostro » [1] .

Gesù Cristo fa sempre distinzione tra «Padre mio» e «Padre vostro» (cfr. Gv 20, 17). Infatti, quando Egli prega non dice mai «Padre nostro». Questo dimostra che la sua relazione con Dio è del tutto singolare: è una relazione sua e di nessun altro.
Con la preghiera del Padre nostro , Gesù vuol rendere consapevoli i suoi discepoli della loro condizione di figli di Dio, ma indica allo stesso tempo la differenza che c’è tra la sua filiazione divina naturale e la nostra filiazione divina adottiva ricevuta da Dio come dono gratuito.

La preghiera del cristiano è la preghiera di un figlio di Dio che si rivolge a suo Padre Dio con confidenza filiale, che «è indicata nelle Liturgie d’Oriente e di Occidente con una felice espressione tipicamente cristiana: “ parresìa ”, vale a dire semplicità schietta, fiducia filiale, gioiosa sicurezza, umile audacia, certezza di essere amati (cfr. Ef 3, 12; Eb 3, 6; 4, 16; 10, 19; 1 Gv 2, 28; 3, 21; 5, 14)» (Catechismo , 2778).
Il vocabolo “ parresìa ” indicava in origine il privilegio della libertà di parola del cittadino greco nelle assemblee popolari, ed è stato adottato dai Padri della Chiesa per esprimere il comportamento filiale del cristiano davanti a suo Padre Dio.





2. Filiazione divina e fraternità cristiana





Nel chiamare Dio Padre nostro, riconosciamo che la filiazione divina ci unisce a Cristo, «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29), mediante una vera fraternità soprannaturale. «La Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini» (Catechismo , 2790).

Per tale ragione la santità cristiana, pur essendo personale e individuale, non è mai individualista o egocentrica: «Se preghiamo in verità il Padre nostro , usciamo dall’individualismo, perché ne siamo liberati dall’Amore che accogliamo. Il “nostro” dell’inizio della Preghiera del Signore, come il “noi” delle ultime quattro domande, non esclude nessuno.
Perché sia detto in verità (cfr. Mt 5, 23-24; 6, 14-16), le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati» (Catechismo , 2792).

La fraternità costituita dalla filiazione divina si estende a tutti gli uomini, perché in un certo modo tutti sono figli di Dio – creature sue – e sono chiamati alla santità: «Sulla terra non c’è che una razza: quella dei figli di Dio» [2] . Perciò ogni cristiano deve sentirsi solidale nel compito di condurre tutta l’umanità a Dio.

La filiazione divina ci spinge all’apostolato che è una manifestazione irrinunciabile di filiazione e di fraternità: «Prima di ogni altra cosa, devi pensare agli altri, a coloro che ti sono vicini, stimandoli per quello che sono: figli di Dio, con tutta la dignità di questo titolo meraviglioso. Con i figli di Dio dobbiamo comportarci come figli di Dio: il nostro amore deve essere abnegato, quotidiano, ricco di mille sfumature di comprensione, di sacrificio silenzioso, di donazione nascosta» [3] .





3. Il senso della filiazione divina come fondamento della vita spirituale





Quando si vive intensamente la filiazione divina, essa arriva ad essere «un atteggiamento profondo dell’anima, che finisce per informare tutta l’esistenza: è presente in tutti i pensieri, in tutti i desideri, in tutti gli affetti» [4] .
Si tratta di una realtà da vivere sempre, e non solo in circostanze particolari della vita: «Non possiamo essere figli di Dio solo di quando in quando, anche se ci devono essere alcuni momenti particolarmente riservati a considerare e approfondire la realtà e il senso della filiazione divina, che è il nocciolo della pietà» [5] .

San Josemaría insegna che il senso o coscienza viva della filiazione divina «è il fondamento dello spirito dell’Opus Dei. Tutti gli uomini sono figli di Dio. Ma un figlio si può comportare con suo padre in diverse maniere. Bisogna rendersi conto che il Signore, volendoci suoi figli, ci ha ammessi a vivere nella sua casa, in mezzo al mondo: ha voluto che fossimo della sua famiglia, che tutte le cose sue fossero nostre e le nostre sue, che lo trattassimo con tanta familiarità e fiducia da chiedergli, come fa il bambino, la luna!» [6] .

La gioia cristiana affonda le sue radici nel senso della filiazione divina: «La gioia è conseguenza necessaria della filiazione divina, del saperci amati con predilezione da nostro Padre Dio, che ci accoglie, ci aiuta e ci perdona» [7] .
Nella predicazione di San Josemaría molto spesso appariva chiaramente che la sua gioia sgorgava dalla considerazione di questa realtà: «Per motivi che non occorre ricordare – ma che ben conosce Gesù, che ci presiede dal Tabernacolo -, la vita mi ha condotto a sapere in modo tutto particolare di essere figlio di Dio, e ad assaporare la gioia di mettermi nel cuore di mio Padre, per rettificare, per purificarmi, per servirlo, per comprendere e scusare tutti, sul fondamento del suo amore e della mia umiliazione […]. Nel corso degli anni, ho cercato senza cedimenti di fondarmi su questa gioiosa realtà» [8] .

Una delle questioni più delicate che l’uomo si pone quando medita sulla filiazione divina è il problema del male. Molti non riescono a mettere d’accordo l’esperienza del male nel mondo con la certezza di fede della infinita bontà di Dio. I santi insegnano che tutto ciò che accade nella vita dell’uomo dev’essere considerato un bene perché hanno capito profondamente la relazione tra la filiazione divina e la Santa Croce.
È quello che esprimono, per esempio, queste parole di San Tommaso Moro alla figlia maggiore, mentre era incarcerato nella Torre di Londra: «Figlia mia amatissima, non si turbi mai la tua anima qualunque cosa possa accadermi in questo mondo.
Nulla può accadermi che Dio non voglia.
E io sono perfettamente sicuro che qualunque cosa avvenga, per quanto cattiva possa sembrare, sarà in verità la cosa migliore» [9] .
Le stesse cose insegna San Josemaría in relazione magari a situazioni meno drammatiche, ma nelle quali un’anima cristiana può soffrire e restare turbata: «Dispiaceri? Contrarietà per questa o quella vicenda? Non vedi che è tuo Padre-Dio a volerlo?..., ed Egli è buono…, ed Egli ti ama… - te solo! – più di quanto tutte le madri del mondo messe insieme possano amare i propri figli!» [10] .

Per San Josemaría, la filiazione divina non è dolciastra, estranea alla sofferenza e al dolore. Al contrario, egli afferma che è intrinsecamente legata alla Croce presente inevitabilmente nella vita di tutti coloro che vogliono seguire Cristo da vicino: «Gesù prega nell’orto: Pater mi (Mt 26, 39), Abba, Pater! (Mc 14, 36). Dio è mio Padre, anche se mi manda sofferenze. Mi ama con tenerezza, anche se mi ferisce. Gesù soffre, per compiere la Volontà del Padre… E io, che a mia volta voglio compiere la santissima Volontà di Dio, seguendo le orme del Maestro, potrò lamentarmi se trovo la sofferenza come compagna di strada?
Sarà un segno certo della mia filiazione, perché Egli mi tratta come il suo divino Figlio. E, allora, come Lui, potrò gemere e piangere da solo nel mio Getsemani, ma prostrato a terra, riconoscendo il mio nulla, salirà fino al Signore un grido sgorgato dall’intimo della mia anima: Pater mi, Abba, Pater,… fiat !» [11] .

Un’altra conseguenza importante del senso della filiazione divina è l’abbandono filiale nelle mani di Dio, non dovuto tanto alla lotta ascetica personale – anche se la si presuppone -, quanto al lasciarsi portare da Dio. Per questo si parla di abbandono. Si tratta di un abbandono attivo, libero e cosciente, da parte del figlio.
Questo atteggiamento ha dato origine a un modo concreto di vivere la filiazione divina – che non è l’unico, né è un cammino obbligatorio per tutti -, chiamato «infanzia spirituale»: consiste nel riconoscersi dinanzi a Dio non solo figlio, ma figlio piccolo, come un bambino pieno di necessità. Così si esprime San Francesco di Sales: « Se non diventerete semplici come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli (cfr. Mt 18, 3).
Finché il bambino è piccolino, conserva una grande semplicità; riconosce solo sua madre; ha un solo amore, sua madre; un’unica aspirazione, il grembo di sua madre; non desidera altro se non adagiarsi in così amabile riposo.
L’anima perfettamente semplice ha un solo amore, Dio; e in questo unico amore, una sola aspirazione, riposare sul petto del Padre celeste, e lì fissare il suo riposo, quale figlio amorevole, lasciando completamente ogni iniziativa a Lui, non desiderando altro che rimanere per sempre in questa santa confidenza» [12] .
Da parte sua, anche San Josemaría consigliava di percorrere la via dell’infanzia spirituale: «Se sarete bambini non avrete dispiaceri: i bambini dimenticano subito i loro guai per tornare ai giochi abituali. – Pertanto, abbandonandovi, non avrete di che preoccuparvi, giacché riposerete nel Padre» [13] .











4. Le sette domande del Padre nostro





Nella preghiera del Signore, all’invocazione iniziale «Padre nostro, che sei nei cieli», seguono sette domande. «Le prime tre domande hanno come oggetto la Gloria del Padre: la santificazione del Nome, l’avvento del Regno e il compimento della Volontà divina. Le altre quattro presentano a Lui i nostri desideri: queste domande riguardano la nostra vita per nutrirla e guarirla dal peccato, e si ricollegano al nostro combattimento per la vittoria del Bene sul Male» (Catechismo , 2857).

Il Padre nostro, come insegna San Tommaso d’Aquino, è modello di ogni preghiera: «La preghiera dominicale è la più perfetta delle Preghiere… In essa, non solo domandiamo tutto quello che possiamo desiderare con rettitudine, ma anche secondo l’ordine in cui conviene desiderarlo. Sicché questa preghiera non solo ci insegna a domandare, ma plasma anche tutta la nostra affettività» [14] .



Prima domanda: Sia santificato il tuo nome

La santità di Dio non può essere accresciuta da nessuna creatura. Perciò «il termine “santificare” qui va inteso non già nel suo senso causativo (Dio solo santifica, rende santo), ma piuttosto nel suo senso estimativo: riconoscere come santo, trattare in una maniera santa […]. Fin dalla prima domanda al Padre nostro siamo immersi nell’intimo mistero della sua Divinità e nel dramma della salvezza della nostra umanità. Chiedergli che il suo Nome sia santificato ci coinvolge nel Disegno che [egli] “nella sua benevolenza aveva… prestabilito”, “per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità” (cfr. Ef 1, 9.4)» (Catechismo , 2807).
Così dunque, l’esigenza della prima domanda è che la santità divina risplenda e si accresca nella nostra vita: «Chi potrebbe santificare Dio, dato che è Lui che santifica? Ispirandoci alle parole “Sarete santi poiché Io sono santo” (Lv 20, 26), chiediamo che, santificati dal battesimo, perseveriamo in ciò che abbiamo cominciato ad essere. E lo chiediamo tutti i giorni perché pecchiamo tutti i giorni e dobbiamo purificare i nostri peccati con una santificazione incessante… Ricorriamo, pertanto, alla preghiera affinché la santità rimanga in noi» [15] .



Seconda domanda: Venga il tuo regno

La seconda domanda esprime la speranza che arrivi un tempo nuovo in cui Dio sia riconosciuto da tutti come Re che colmerà di benefici i suoi sudditi: «Questa richiesta è il “Marana Tha”, il grido dello Spirito e della Sposa: “Vieni, Signore Gesù” (Ap 22, 20) […]. Nella preghiera del Signore si tratta principalmente della venuta finale del Regno di Dio con il ritorno di Cristo (cfr. Tt 2, 13)» (Catechismo , 2817-2818).
D’altra parte, il Regno di Dio ha avuto già inizio in questo mondo con la prima venuta di Cristo e l’invio dello Spirito Santo: «“Il Regno di Dio è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo” (Rm 14, 17). Gli ultimi tempi, nei quali siamo, sono quelli dell’effusione dello Spirito Santo.
Pertanto, si è ingaggiato un combattimento decisivo tra “la carne” e lo Spirito (cfr. Gal 5, 16-25): “Solo un cuore puro può dire senza trepidazione alcuna: ‘Venga il tuo Regno!’. Bisogna essere stati alla scuola di Paolo per dire: ‘Non regni più dunque il peccato nel nostro corpo mortale (Rm 6, 12). Colui che nelle azioni, nei pensieri, nelle parole si conserva puro, può dire a Dio ‘Venga il tuo Regno!’ (San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses mistagogicæ , 5, 13)» (Catechismo , 2819). In definitiva, nella seconda domanda esprimiamo il desiderio che Dio regni attualmente in noi mediante la grazia, che il suo Regno sulla terra si estenda sempre più e che alla fine dei tempi Egli regni pienamente su tutti nel Cielo.



Terza domanda: Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra

La volontà di Dio è che «tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2, 3-4). Gesù ci insegna che si entra nel Regno dei Cieli, non mediante le parole, ma facendo «la volontà del Padre mio che è nei cieli» (Mt 7, 21). Perciò qui «chiediamo al Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo per compiere la sua Volontà, il suo Disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a Gesù e con la potenza del suo Spirito Santo, possiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di scegliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre (cfr. Gv 8, 29)» (Catechismo , 2825).
Come afferma un Padre della Chiesa, quando nel Padre nostro preghiamo sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra , non lo chiediamo «nel senso che Dio faccia quello che vuole, ma che noi diventiamo capaci di fare quello che Dio vuole» [16] . D’altra parte, l’espressione come in cielo così in terra fa capire che in questa domanda desideriamo che, come si è compiuta la volontà di Dio negli angeli e nei beati del Paradiso, così si compia in noi che ancora siamo sulla terra.



Quarta domanda: Dacci oggi il nostro pane quotidiano

Questa domanda esprime l’abbandono filiale dei figli di Dio, perché «il Padre, che ci dona la vita, non può non darci il nutrimento necessario per la vita, tutti i beni convenienti, materiali e spirituali» (Catechismo , 2830). Il senso cristiano di questa quarta domanda «riguarda il Pane di Vita: la Parola di Dio da accogliere nella fede, il Corpo di Cristo ricevuto nell’Eucaristia (cfr. Gv 6, 26-58)» (Catechismo , 2835). La parola quotidiano , «intesa nel suo significato temporale, è una ripresa pedagogica di “oggi” (cfr. Es 16, 19-21) per confermarci in una confidenza “senza riserve”. Intesa in senso qualitativo, significa il necessario per la vita e, in senso lato, ogni bene sufficiente per il sostentamento (cfr. 1 Tm 6, 8)» (Catechismo , 2837).



Quinta richiesta: Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

In quest’altra domanda cominciamo col riconoscere la nostra condizione di peccatori: «Torniamo a Lui, come il figlio prodigo (cfr. Lc 15, 11-32), e ci riconosciamo peccatori, davanti a Lui, come il pubblicano (cfr. Lc 18, 13). La nostra richiesta inizia con una “confessione”, con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia» (Catechismo , 2839).
Ma questa richiesta non sarà ascoltata se prima non avremo risposto ad una esigenza: perdonare quelli che ci offendono. La ragione è la seguente: «Questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso. L’Amore, come il Corpo di Cristo, è indivisibile: non possiamo amare Dio che non vediamo, se non amiamo il fratello, la sorella che vediamo (cfr. 1 Gv 4, 20). Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all’amore misericordioso del Padre» (Catechismo , 2840).



Sesta domanda: Non ci indurre in tentazione

Questa domanda è collegata alla precedente, perché il peccato è conseguenza del libero consenso alla tentazione. Perciò ora «chiediamo al Padre nostro di non “indurci” in essa […]. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta “tra la carne e lo Spirito”.
Questa richiesta implora lo Spirito di discernimento e di fortezza» (Catechismo , 2846). Dio ci dà sempre la sua grazia per vincere le tentazioni: «Dio è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (1 Cor 10, 13), però per vincere sempre le tentazioni è necessario pregare: «Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera.
È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul Tentatore, fin dall’inizio (cfr. Mt 4, 11) e nell’ultimo combattimento della sua agonia (cfr. Mt 26, 36-44). Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa domanda al Padre nostro […]. Questa richiesta acquista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione finale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale . “Ecco, Io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante” ( Ap 16, 15)» (Catechismo , 2849).



Settima domanda: Ma liberaci dal male

L’ultima domanda è contenuta anche nella preghiera sacerdotale di Gesù a suo Padre: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17, 15). Infatti, «in questa richiesta il Male non è un’astrazione; indica invece una persona: Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio.
Il “diavolo” [“dia-bolos”, colui che “si getta di traverso”] è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua opera di salvezza compiuta in Cristo» (Catechismo , 2851).
Inoltre, «chiedendo di essere liberati dal Maligno, noi preghiamo nel contempo per essere liberati da tutti i mali, presenti, passati e futuri, di cui egli è l’artefice o l’istigatore» (Catechismo , 2854), specialmente dal peccato, l’unico vero male [17], e dalla sua pena che è la condanna eterna. Gli altri mali e le altre tribolazioni possono trasformarsi in beni, se li accettiamo e li uniamo alle sofferenze di Cristo sulla Croce.


fonte:
Opus Dei - Manuel Belda





Bibliografia di base Catechismo della Chiesa Cattolica , 2759-2865.

Benedetto XVI-Joseph Ratzinger, Gesù di Nazaret , Rusconi ed., Milano 2007 (capitolo dedicato all’orazione del Signore).

Letture raccomandate

San Josemaría, Omelie Il rapporto con Dio e Verso la santità , in Amici di Dio, 142-153 e 294-316.

J. Burggraf, El sentido de la filiación divina , in AA. VV., Santidad y mundo , Pamplona 1996, pp. 109-127.

F. Fernández-Carvajal y P. Beteta, Hijos de Dios. La filiación divina que vivió y predicó el beato Josemaría Escrivá , Madrid 1995.

F. Ocáriz, La filiación divina, realidad central en la vida y en la enseñanza de Mons. Escrivá de Balaguer , in AA. VV., Mons. Escrivá de Balaguer y el Opus Dei . En el 50 aniversario de su fundación , Pamplona 1985, pp. 173-214.

B. Perquin, Abba, Padre: para alabanza de tu gloria , Madrid 1999.

J. Sesé, La conciencia de la filiación divina, fuente de vida espiritual , in J.L. Illanes (coord.), El Dios y Padre de Nuestro Señor Jesucristo , XX Simposio internacional de Teología de la Universidad de Navarra, Pamplona 2000, pp. 495-517.

J Stöhr, La vida del cristiano según el espíritu de filiación divina , in «Scripta Theologica» 24 (1992/3) 872-893.

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[1] Giovanni Paolo II, Allocuzione , Udienza generale dell’1-VII-1987, 3.

[2] San Josemaría, È Gesù che passa , 13.

[3] Ibidem , 36.

[4] San Josemaría, Amici di Dio , 146.

[5] San Josemaría, Colloqui , 102.

[6] San Josemaría, È Gesù che passa , 64.

[7] San Josemaría, Forgia , 332.

[8] San Josemaría, Amici di Dio , 143.

[9] San Tommaso Moro, Preghiere e lettere dalla tor re, n. 7 (Lettera di Margaret ad Alice, agosto 1534, nella quale racconta un lungo colloquio con suo padre nella prigione), Osanna Venosa, 2000.

[10] San Josemaría, Forgia , 929.

[11] San Josemaría, Via Crucis , I Stazione, Punti di meditazione , n. 1.

[12] San Francesco di Sales, Trattenimenti spirituali , n. 16, 7, Città Nuova, 2009.

[13] San Josemaría, Cammino , 864.

[14] San Tommaso d’Aquino, Summa theologiæ , II-II, 83, 9.

[15] San Cipriano, De dominica oratione , 12.

[16] Ibidem , 14.

[17] Cfr. San Josemaría, Cammino , 386




APPROFONDIMENTI:

COME PREGARE?

Le PREGHIERE

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"[...] Non abbiate paura!
APRITE, anzi, SPALANCATE le PORTE A CRISTO!
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Non abbiate paura!
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Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro,
nel profondo del suo animo, del suo cuore.
Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra.
È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione.
Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo.
Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna. [...]"


Papa Giovanni Paolo II
(estratto dell'omelia pronunciata domenica 22 ottobre 1978)



 
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