Il 12 ottobre 2006 moriva a soli quindici anni, per una leucemia fulminante, Carlo Maria Acutis. Lo sport, la passione per il computer... E poi, ogni giorno, la messa e la recita del Rosario. Un ragazzo come gli altri, ma con un accento diverso che lo faceva sentire amico di tutti. Padre Roberto Gazzaniga, che lo ebbe come alunno all’Istituto Leone XIII di Milano, ricorda: «Era così bravo, così dotato da essere riconosciuto tale da tutti, ma senza suscitare invidie o gelosie.
Carlo non ha mai celato la sua scelta di fede e anche in colloqui e incontri-scontri verbali con i compagni di classe era sempre rispettoso delle posizioni altrui, ma senza rinunciare alla chiarezza e di dire e testimoniare i principi ispiratori della sua vita cristiana».
Monsignor Ennio Apeciti, responsabile dell’Ufficio delle cause dei santi dell’Arcidiocesi di Milano, ha detto: «La sua fama di santità è esplosa a livello mondiale, in modo misterioso come se Qualcuno volesse farlo conoscere. Attorno alla sua vita è successo qualcosa di grande, di fronte a cui mi inchino».
Su Tracce, nel febbraio 2014, abbiamo raccontato la sua storia.
«Signora, suo figlio è speciale». Antonia Acutis questa frase l’ha sentita ripetere più volte: dal prete della parrocchia, dagli insegnanti, da compagni di classe, dal portinaio del loro stabile in via Ariosto a Milano, dove si erano trasferiti nel 1994 tre anni dopo la nascita di Carlo, questo ragazzo morto a 15 anni per il quale la Congregazione delle Cause dei Santi ha concesso il nulla osta per l’avvio dell’inchiesta diocesana per la causa di beatificazione.
In fondo, Carlo è un ragazzino normale: vivace, con tanti amici e una passione per l’informatica. Ma quella specialità ha un nome: Gesù, l’Amico. Se ne era accorta fin da quando Carlo, piccolissimo, passando davanti alle chiese le diceva: «Mamma, entriamo a fare un saluto a Gesù, a dire una preghiera». Poi aveva scoperto che leggeva la vita dei santi e la Bibbia. La loro è una famiglia normale, inizialmente la sua frequentazione in chiesa neanche molto assidua. «Ma quel “mostriciattolo” mi faceva tante domande profonde a cui io non sapevo rispondere.
Rimanevo perplessa per quella sua devozione. Era così piccolo e così sicuro. Capivo che era una cosa sua, ma che chiamava anche me. Così ho iniziato il mio cammino di riavvicinamento alla fede. L’ho seguito». Don Aldo Locatelli, il sacerdote che accompagna lei e il figlio, le dice: «Ci sono bambini che il Signore chiama fin da quando sono piccoli».
A sette anni, Carlo chiede di poter ricevere la Prima Comunione. Quell’Amico si fa ancora più prossimo. Su richiesta di don Aldo, monsignor Pasquale Macchi (che era stato segretario di Paolo VI), dopo averlo interrogato, garantisce la maturità e la formazione cristiana del bambino per ricevere il Sacramento. Fa un’unica raccomandazione: che la celebrazione si svolga in un luogo idoneo al raccoglimento interiore, senza distrazioni. Il 16 giugno 1998 riceve l’Eucaristia nel silenzio del monastero della Bernaga a Perego, vicino a Lecco.
Quella di Carlo è una vita normale. Con un punto fermo, speciale: la messa quotidiana, perché dice «l’Eucaristia è la mia autostrada per il Cielo. Noi siamo più fortunati degli Apostoli che vissero 2000 anni fa con Gesù: per incontrarLo basta che entriamo in chiesa. Gerusalemme l’abbiamo sotto casa». Al termine della celebrazione si ferma per l’adorazione.
Si confessa frequentemente perché «come la mongolfiera per salire in alto ha bisogno di scaricare i pesi, così l’anima per levarsi al Cielo ha bisogno di togliere anche quei piccoli pesi che sono i peccati veniali». Sono parole semplici, di un ragazzino. Ma con il desiderio di stare con quell’Amico che gli sta chiedendo tutto. Soprattutto di testimoniarlo con la sua vita.
Carlo ha un carattere forte, dirompente. La sua passione per il computer lo porta a studiare nuovi programmi. E gli piace anche giocare alla Play Station con gli amici. A scuola - prima all’istituto delle suore Marcelline di piazza Tommaseo e poi al Leone XIII, liceo dei gesuiti - è amico di tutti, ma soprattutto di chi ha bisogno. I suoi compagni, anche chi non crede, vogliono stare con lui. Chiedono consigli, aiuto. Lo cercano. Perché con Carlo si sta bene, c’è qualcosa in lui che attrae. Eppure non è uno che ama le mode. Si arrabbia quando la mamma vuole comprargli un secondo paio di scarpe. Non gli interessa. Non nasconde mai qual è la sua fonte di felicità.
In camera ha un grande quadro di Gesù e tutti lo possono vedere. E invita i suoi compagni ad andare insieme a messa, a riconciliarsi con Dio. Su un quaderno scrive: «La tristezza è lo sguardo rivolto verso se stessi, la felicità è lo sguardo rivolto verso Dio. La conversione non è altro che spostare lo sguardo dal basso verso l’alto. Basta un semplice movimento degli occhi».
Nel quartiere lo conoscono tutti. Quando passa in bicicletta si ferma a salutare i portinai, molti sono extracomunitari di religione musulmana, induista. Racconta loro di sé, della sua fede. E loro ascoltano quel ragazzino così simpatico, affabile. A pranzo fa mettere nei contenitori il cibo che avanza per portarlo ai clochard della zona. A casa, come collaboratore domestico c’è Rajesh, induista, bramino. Tra lui e Carlo nasce una amicizia profonda fino al punto che l’uomo si converte e chiede di ricevere i sacramenti.
Racconta Rajesh: «Mi diceva che sarei stato più felice se mi fossi avvicinato a Gesù. Mi sono fatto battezzare cristiano perché è stato lui che mi ha contagiato e folgorato con la sua profonda fede, la sua carità e la sua purezza.
L’ho sempre considerato fuori dal normale perché un ragazzo così giovane, così bello e così ricco normalmente preferisce fare una vita diversa». Ma Carlo non sa cosa significhi una “vita diversa”.
I soldi per lui non si possono sprecare. Con i risparmi compra un sacco a pelo per il barbone che vede quando va a messa in Santa Maria Segreta. Oppure li dona ai Cappuccini di viale Piave, che servono i pranzi per i senzatetto.
Nel 2002 accompagna i genitori al Meeting di Rimini. Un loro amico sacerdote è relatore di un incontro di presentazione del Piccolo catechismo eucaristico. Rimane affascinato dalle persone e dalle mostre che vede. E gli viene l’idea: una mostra sui miracoli eucaristici.
Racconta Antonia Acutis: «Era certo che così la gente si sarebbe resa conto che davvero nell’ostia e nel vino consacrato ci sono il corpo e il sangue di Cristo. Che non c’è nulla di simbolico, ma che è la possibilità reale di incontrarLo. In quel periodo era aiuto catechista e questa mostra gli sembrava un modo nuovo per far ragionare sul Mistero eucaristico».
Tornato a Milano, si mette all’opera. Le sue conoscenze informatiche sono un grande aiuto. Ci mette anima e corpo. Si documenta, chiede ai genitori di accompagnarlo in giro per l’Italia e l’Europa per reperire materiale fotografico. Coinvolge tutti, “esaurisce” tre computer. Dopo tre anni, la mostra è pronta. E per un passaparola inaspettato comincia a essere richiesta non solo nelle Diocesi italiane, ma di tutto il mondo.
Nell’estate 2006, in vacanza, Carlo chiede alla mamma: «Secondo te, devo farmi sacerdote?». La donna risponde semplicemente: «Lo capirai da solo. È Dio che te lo farà capire».
Ai primi di ottobre Carlo si ammala. Sembra una normale influenza. Ha da poco ultimato la presentazione di un video con le proposte di volontariato per gli studenti del Leone XIII. Un lavoro a cui teneva in modo particolare. L’appuntamento per la proiezione è il 4 ottobre. Ma lui non ci può andare perché già malato. È ricoverato pochi giorni dopo al San Gerardo di Monza.
Non è influenza, bensì leucemia fulminante, il tipo M3, la peggiore. Non c’è alcuna possibilità. Appena varca la soglia dell’ospedale dice alla mamma: «Da qui non esco più». Pochi giorni prima aveva detto ai genitori: «Offro le sofferenze che dovrò patire al Signore per il Papa e per la Chiesa, per non fare il Purgatorio ed andare diritto in Paradiso».
Le sofferenze arrivano. Ma all’infermiera che gli domanda come si sente risponde: «Bene. C’è gente che sta peggio. Non svegli la mamma che è stanca e si preoccuperebbe di più». Chiede l’Unzione degli infermi. Muore il 12 ottobre.
Il giorno del funerale la chiesa e il sagrato sono strapieni. Racconta la mamma: «Ho visto gente mai vista né conosciuta prima. Clochard, extracomunitari, bambini... Tante persone che mi parlavano di Carlo. Di quello che lui aveva fatto e di cui io non sapevo niente. Mi testimoniavano la vita di mio figlio, io che mi sentivo orfana».
Una testimonianza che è andata oltre la morte. Che ha trasformato la vita di tanti. Tramite chi lo aveva conosciuto e attraverso il mondo di internet la sua storia, i suoi pensieri vengono conosciuti. Alla famiglia arrivano migliaia di lettere e mail che chiedono di sapere di più di quel ragazzo speciale. In una si legge: «Ho visitato la chiesa di San Frediano al Cestello a Firenze e sono stato colpito dall’immagine di Carlo che stava quasi ad aspettarmi.
Non ho potuto fare a meno di avvicinarmi per leggere la storia di un ragazzo al quale sono bastati 15 anni di vita per lasciare una traccia incancellabile su questa terra». O un coetaneo, che non lo ha mai conosciuto, e che scrive su Facebook: «Carlo è vissuto in una famiglia molto abbiente per cui nulla gli avrebbe impedito di vivere in modo agiato e che gli avrebbe procurato quel senso di superbia. Invece ha sempre mantenuto quel tenore di vita e di pensiero “povero”, aperto agli ultimi, altruista verso chiunque, non è poco nel nostro “pianeta”».
Per tanti giovani diventa un esempio di come è possibile vivere la fede. Qualcuno racconta la propria conversione. E poi la mostra, che arriva ai confini della terra: Cina, Russia, America latina. Negli Stati Uniti, grazie all’aiuto dei Cavalieri di Colombo, è ospitata da migliaia di parrocchie e oltre 100 università.
Don Giussani ha scritto: «La libertà di Dio si muove nella vita che ha creato, vi si coinvolge partendo da persone o da luoghi prescelti, preferiti diremmo noi, ma è una preferenza in funzione di tutto». La specialità di Carlo è stata questa preferenza, da lui amata e accolta. «Il sacerdote lo sta facendo in cielo», dice la mamma. «Lui che non si capacitava di come gli stadi per i concerti fossero pieni e le chiese invece così vuote. Ripeteva: “Devono capire”».
Fonte: Comunione e Liberazione